Responsabilità medica: il medico dipendente risponde a titolo extracontrattuale, la struttura sanitaria a titolo contrattuale

L’opinione pubblica negli ultimi giorni dibatte sul tema della responsabilità del medico ospedaliero. Origine del pubblico dibattito sono state alcune sentenze del Tribunale di Milano, in particolare la sent. del 17 luglio 2014-Est. Patrizio Gattari e la sent. n. 10261 del 18 agosto 2014. Entrambe le sentenze si inseriscono nel più ampio dibattito sul titolo della responsabilità del medico (e degli altri esercenti le professioni sanitarie) a seguito dell’entra in vigore della c.d. Legge Balduzzi scaturente dal secondo inciso della norma (“In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”), caratterizzato da opinioni contrapposte. Se, prima della pubblicazione della Legge Balduzzi, la Giurisprudenza sia di merito che di legittimità aveva trovato una certa stabilità nel qualificare la responsabilità del medico dipendente da una struttura sanitaria (sia essa pubblica o privata) come contrattuale ricorrendo alla teoria del c.d. “contatto sociale”, a seguito della pubblicazione di suddetta normativa, si è posto agli interpreti il dubbio sulla portata dell’art. 3 e del richiamo alla disciplina dell’art. 2043 c.c. Mentre la Corte di Cassazione, seguita da alcuni giudici di merito, rimane ferma nelle interpretazioni e teorie precedenti, sostenendo che il Legislatore abbia utilizato in modo atecnico il richiamo al dettato codicistico, intendendo con ciò solo fare riferimento alla disciplina codicistica, il Tribunale di Milano, al contrario, riempie di significato il richiamo all’art. 2043 c.c. Operato dalla L. Balduzzi. Si ritiene, infatti, che il richiamo codicistico costituisca una scelta precisa e ponderata del Legislatore al fine di ricondurre la responsabilità del medico all’interno delle più ristrette e sicure maglie della responsabilità extracontrattuale, così lasciando l’onere di dimostrare il danno ingiusto, il nesso causale (l’errore medico) e l’imputabilità soggettiva in capo al danneggiato, non senza dimenticare il termine di prescrizione più breve (5 anni dal fatto illecito).

Nel dettaglio. La Corte di Cassazione anche recentemente nell’ordinanza n. 8940 del 15.04.2014 afferma “La norma dell’art. 3, comma 1 del D.l. n. 158 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 189 del 2012, quando dispone nel primo inciso che <<l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve>> e, quindi, soggiunge che << in tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c.>>, poichè omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Dev’essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieva anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente extracontrattuale“. Appare evidente che il Supremo collegio ritiene di non mutare orientamento e rimanere ancorato alla giurisprudenza dell’ultimo decennio, ribadito anche dalle Sezioni Unite del 2008 (sent. 577/2008) – “in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, l’ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche l’obbligazione di quest’ultimo nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (…)” (in tal senso, fra le altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085). Con ciò ribadendo, implicitamente, il termine di prescrizione decennale dell’azione, l’onere della prova in capo al medico di avere bene e correttamente adempiuto, lasciando in capo al danneggiato solo l’onere della prova del danno patito. Il Tribunale di Milano, critica proprio apertis verbis proprio questo recente arresto della Suprema Corte definendolo “solo in parte convincente“. La prima sezione, infatti, ritiene che il riferimento all’art. 2043 c.c. non sia affatto frutto di una svista del legislatore. Anzi. In applicazione dell’art. 12 delle preleggi, ritiene che sia il dato letterale che l’intenzione del legislatore -dettata da una scelta politica economica di contenimento della spesa pubblica e porre rimedio al c.d. fenomeno della medicina difensiva, anche attraverso un limite alla responsabilità dei medici- depongano a favore di un’interpretazione utile e modificativa del diritto vivente. Riempiendo di significato il richiamo all’art. 2043 c.c. Operato dall’art. 3, comma 1 della Legge Balduzzi, il Tribunale “alleggerisce” di fatto la posizione del medico dipendente limitando non solo l’arco temporale in cui egli può essere chiamato in giudizio (5 anni dal fatto), ma anche riducendo gli oneri probatori a suo carico. Il Tribunale milanese ritiene altresì, non senza ragioni, che “Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. dovrebbe altresì favorire la c.d. alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che (più o meno inconsciamente) venga inquinata da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è normativamente tenuto (ma che, di fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale” finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo carico l’obbligazione di risarcire il danno qualora non sia in grado di provare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa a lui non imputabile) e che è spesso alla base di scelte terapeutiche “difensive”, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato.” E’ doveroso sottolineare come lo stesso Tribunale precisi che questa nuova (ma non del tutto inattesa) interpretazione della Legge Balduzzi non va ad incidere in alcun modo sulla responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata) per la quale rimane ferma la natura contrattuale (ex art. 1218 c.c.); il Giudicante, in particolare, specifica che se il danneggiato agisce in giudizio sia contro il medico che contro la struttura sanitaria la responsabilità se giudizialmente riconosciuta sussistente, sia pur a diverso titolo, sarà solidale (con applicazione dell’art. 2055 c.c.) essendo unico il “fatto dannoso”. Allo stesso modo il medico che non operi alle dipendenze di una struttura sanitaria (pubblica o privata), che concluda direttamente e personalmente un contratto con un paziente,risponderà di eventuali danni a titolo contrattuale. L’opinione pubblica ha colto con un certo allarme sociale la prouncia milanese, tuttavia, a parere di chi scrive, le tutele in capo al paziente-danneggiato non sembrano eccessivamente compresse, atteso che egli avrà sempre la possibilità di convenire in giudizio anche la struttura sanitaria interessata, la quale sarà chiamata a rispondere sulla base delle ordinarie regole della responsabilità contrattuale. Al contrario, decisioni in questo senso dovrebbero comportare una maggiore serenità nell’operato dei medici che operano nell’ambito delle strutture sanitarie e, sperabilmente, l’abbandono di atteggiamenti difensivistici che vanno a scapito dei pazienti e dello stesso lavoro quotidiano dei sanitari.

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